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lunedì 19 dicembre 2011

Ode al DISADATTATO

Alcuni anni fa ho letto un libro carino e molto delicato, che narrava uno strano intreccio di esistenze e stati d’animo in un contesto familiare molto particolare. Si trattava di “Quella sera dorata” di Peter Cameron, da cui è stato anche tratto un film di James Ivory che purtroppo non sono riuscito a vedere.
Ora ho avuto voglia di leggere l’ultima fatica dell’autore: “Un giorno questo dolore ti sarà utile”.
Lo stile della prosa è sempre ottimo e mi ha coinvolto piacevolmente la figura del protagonista, io narrante; un adolescente fin troppo maturo e precoce, che sforna massime di vita e considerazioni analitiche a tal punto ciniche e pessimistiche, ma realistiche, da essere frettolosamente etichettato come sociopatico e disadattato.
Sarà, ma mi sono trovato a condividere la quasi totalità delle sue conclusioni (“Se non fosse una tragedia, mi verrebbe da ridere a pensare che la religione è considerata una forza positiva, che rende le persone buone e caritatevoli. La maggior parte dei conflitti passati e presenti sono dovuti all’intolleranza religiosa.”), così come la sua sofferenza nel dover vivere sentendosi quasi sempre inadeguato e fuori posto in questo mondo e fra questa umanità.
A ben vedere, molti personaggi di opere letterarie o cinematografiche contemporanee soffrono di questa sindrome del “disadattato sociale”. Figure solitarie, isolate dal contesto sociale (?) per volontà propria o altrui, comunque brillanti e intelligenti, che si dibattono fra lavori inadeguati o precari, conflitti morali, sensi di colpa, difficoltà economiche e rapporti affettivi troppo complicati. Dal giovane Holden al mondo secondo Garp, dal Viaggio al termine della notte, attraverso lo sceriffo di non è un paese per vecchi e i vari commissari Montalbano, Charitos, Adamsberg, Wallander, fino a Daniel Sempere e Fermin Romero de Torres de L’Ombra del vento.
Casualmente mi capita di parlarne in giro e di esporre alcune considerazioni mie personali o tratte da alcune di queste opere (“Se la gente pensasse un quarto di quanto parla, questo mondo sarebbe un paradiso.”) e mi rendo conto che in molti hanno le mie stesse sensazioni, ma tacciono, cercano di ignorarle e soffrono in silenzio, forse per pudore o nel tentativo di esorcizzarle. 
Ci sentiamo impotenti prigionieri, ostaggi di un mondo costruito a misura di “altri” diversi da noi.

Mi torna in mente una battuta di un film carino di alcuni anni fa (“Si può fare”), ove un ex paziente psichiatrico, dimesso dal manicomio grazie alla famigerata legge 180, dice: “Non sono io ad essere scorbutico, sono gli altri che sono teste di cazzo!”.

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