Nel
complesso, tra i film che ho avuto modo di vedere, non mi pare emerga alcun
capolavoro, ma la qualità media dei prodotti cinematografici mi sembra in
costante aumento negli ultimi anni, soprattutto nell’ambito delle produzioni
“alternative” allo strapotere hollywoodiano. Qualche orribile caduta di stile
non manca certamente; è inevitabile, così come qualche aspettativa delusa, per
essere in linea ad esempio con gli sfegatati ammiratori di Woody Allen. Genio insuperato, a mio parere, dell’intreccio
cinematografico, il grande Woody, negli ultimi anni ha proposto sceneggiature
sempre brillanti e ricche di significati reconditi (fra tutte, Match Point, Whatever Works - Basta che
funzioni), anche se lontane dai suoi
capolavori degli anni ’70 e ’80, da Io e
Annie a La rosa purpurea del Cairo.
Piacevolissimo si rivela anche l’ultimo Midnight
in Paris, ove la sua vena magica e
surreale prende il sopravvento.
Ma uno
degli argomenti in assoluto più trattati e più gettonati nella produzione
cinematografica recente, prevalentemente di origine europea o comunque mediterranea,
è quello dell’immigrazione, dell’accoglienza (o meno…) e dell’integrazione fra
immigrato e paese ospitante. Il problema, perché di problema si tratta, viene
affrontato da svariati punti di vista, descritto e narrato da voci diverse per
nascita, cultura e tradizioni. A dispetto di molte interpretazioni
estremistiche –dal “ributtiamoli a mare” al “siamo tutti fratelli”- ho notato
nella maggior parte dei casi un approccio al fenomeno molto rispettoso e
delicato, con messaggi subliminali di comprensione e fratellanza che, visti nel
piccolo contesto del racconto e della finzione, stimolano riflessioni anche
negli animi meno generosi. Poi, una volta usciti dal cinema e ripiombati nella
vita vera, la realtà è tutta un’altra cosa…
Fra
tutti, mi hanno positivamente impressionato Io sono Li di Andrea Segre e Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki.
Il
primo, meravigliosamente ambientato e fotografato a Chioggia, colloca una
sperduta madre cinese in un bar di pescatori veneti (fra cui Marco Paolini, Roberto Citran e Giuseppe Battiston… più
veneti di così!). Sarà proprio l’affetto e la generosità di questa gente
semplice, soprattutto di Bepi il "Poeta", straniero a sua volta, ad aiutarla a sdebitarsi con la mafia
cinese che gestisce il traffico di esseri umani e a ricongiungersi con l’amato
figlio.
Nel
secondo, una fiaba moderna un po’ surreale, ambientata negli squallidi ma
umanissimi vicoli alla spalle del porto di Le Havre, un vecchio lustrascarpe, con
la complicità dei vicini di casa e di uno sbirro dallo sguardo severo, ma dal
cuore tenero, aiuta un giovane clandestino africano a fuggire in Inghilterra e
ritrovare la madre. Il miracolo della solidarietà umana si materializza nella
miracolosa guarigione della moglie del lustrascarpe, affetta da un tumore incurabile.
Ovvero, morale della storia: fai del bene al tuo prossimo e te ne verrà
restituito con gli interessi. Infatti, come dicevo all’inizio, si tratta di una
fiaba…
Sempre
sullo stesso argomento, da fuggire come la peste, Il villaggio di cartone di Ermanno Olmi. Una predica ininterrotta e prolissa, dal pulpito di una vera chiesa, anche se sconsacrata e disabitata,
e dalla bocca di un vero prete a fine carriera, sulla nostra colpa di essere
nati bianchi, ricchi ed egoisti in un mondo di sofferenza. Lentissimo e
presuntuoso. Insopportabile. Ermanno Olmi mi aveva già fregato in passato (L'albero degli zoccoli…) con
quella sua aria da sacrestano sputasentenze. Non accadrà più.
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