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sabato 14 gennaio 2012

Ascolti della memoria - 2° parte

Nella personale e asimmetrica ricerca sulle mie “origini” musicali, a cui accennavo in qualche post precedente, mi sono finalmente imbattuto in quel vulcano in perpetua eruzione che risponde al nome di Frank Zappa. La complessità e la poliedricità della sua musica avevano limitato il mio interesse negli anni giovanili, forse mancandomi allora il variopinto background musicale e culturale che si rende necessario per avvicinarsi con più consapevolezza alla infinita discografia di questo geniaccio della musica contemporanea, prematuramente scomparso nel lontano 1993. Siffatta irrequietezza intellettuale, profondamente radicata nella cultura e società statunitense negli anni ‘60, ‘70 e ‘80 rappresenta sicuramente il carattere peculiare del personaggio, ma forse anche, per noi europei, il suo maggior limite. Attingendo a man bassa a repertori musicali disparati, dal blues al funk, dall’opera lirica al jazz, Frank Zappa ha saputo comporre partiture così complesse da rappresentare quasi una bizzarra mosca bianca nel panorama musicale del periodo, dominato dal rigido asse chitarra-basso-batteria-tastiere. Nelle sue Big Band, dai “Mothers of Invention” in poi,  si intrecciano una moltitudine di sonorità perfettamente assemblate, con la sua splendida chitarra in primo piano, le voci, i cori, le percussioni possenti e le entrate dei fiati da pelle d’oca. La famosa “Peaches En Regalia”, totalmente strumentale come molti altri suoi cavalli di battaglia, ne è un esempio maestoso. Soprattutto nelle performance dal vivo, per chi ha avuto la fortuna di assistervi, si godeva appieno delle sue grandi capacità sia di strumentista che di compositore, vero e proprio direttore d’orchestra, come nel caso della collaborazione con la London Symphony Orchestra negli anni ’80 o nell’album The Yellow Shark, ultimo pubblicato in vita.
Ma la maggior difficoltà per noi non cittadini USA, come dicevo, sta poi nel seguire –o meglio, non essere in grado di seguire- tutte le complicatissime e fantasiose vicende narrate dai suoi testi, costantemente ispirati a fatti di cronaca, storie e aneddoti della quotidianità americana, così distante e differente dalla nostra. Il linguaggio brutale e triviale, talora logorroico, infarcito di volgarità e doppi sensi, non aiuta la sua musica ad essere “popolare”, nel senso più banale del termine. Le sue radici italiane compaiono sporadicamente solo per titolare brani come “Tengo na minchia tanta” o “Questi cazzi di piccione”…
Naturalmente, le mie preferenze vanno alla produzione distribuita lungo il decennio degli anni ’70, per intenderci, grosso modo da “The Grand Wazoo” del 1972, a “Sheik Yerbouti” del 1979.

Come tutte le personalità artisticamente eccessive, anche a Frank Zappa capita di superare il limite della umana comprensione –la mia!- ed esasperare la tendenza alla sperimentazione musicale e all’improvvisazione. In questi casi basta pigiare il tasto stop o next del proprio lettore CD per passare ad altro… Anche l’ascoltatore ha gli stessi diritti del lettore, per parafrasare Daniel Pennac: interrompere, saltare brani, modificare l’ordine d’ascolto, ecc.
Alla prossima.






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